in the future - u will be able to do some more stuff here,,,!! like pat catgirl- i mean um yeah... for now u can only see others's posts :c
I SAW THE TV GLOW (2024)
di Jane Schoenbrun
“Dottore, si vede che lei non è mai stato una ragazza di tredici anni” così risponde la Cecilia di Eugenides al medico che non si capacità del perché una ragazza così giovane abbia tentato il suicidio (Il giardino delle vergini suicide). Sarò controcorrente ma circoscrivere l'universo che pulsa dentro I Saw the TV Glow al solo disagio che adombra quell’isola dai contorni incerti che gli psicologi dell’età evolutiva chiamano adolescenza a coloro i quali si imbattono in un orientamento o identità sessuale che si discosta dalla consuetudine ma, dimenticando poi, tutti gli altri ragazzi e ragazze che lo stesso universo abitano, è fargli un torto. Chiunque sia stato adolescente - cioè tutti noi - dentro quel senso di solitudine, spaesamento, difficoltosa ricerca e timorosa scoperta di sé in cui si muovono Owen e Maddy, non può non essersi dibattuto e dunque rivedersi e trovarsi; ma I Saw the TV Glow è al contempo anche una feroce critica al mondo di coloro che adolescenti lo sono stati: genitori (distratti), insegnanti (assenti), istituzioni (soffocanti). C’è una scena a inizio film - un piano sequenza che accompagna Owen attraverso i corridoi della scuola - che, mentre ci racconta anche di Maddy attraverso i pensieri raccolti dal proprio diario personale sulla serie tv The Pink Opaque, scarrella tra i poster motivazionali appesi lungo le pareti dell’edificio scolastico; su di uno in particolare si ferma la camera e così recita: “Pain is weakness leaving the body”; ecco, attraverso questo doppio contrasto tra gli appunti scritti a mano da un’adolescente che cerca rifugio e risposte in una serie tv e quei motti stampati - tutti uguali nei caratteri e nei contenuti - che additano la fragilità a fallimento e che non prevedono né contemplano possibilità di un tempo fatto di incertezza e domanda cosicché il dolore si derubrica a debolezza giace la dolente denuncia della Schoenbrun che pare non essere disposta offrire speranza alcuna ai suoi protagonisti. Pensavo mi sarei trovato davanti un film ostico, cerebrale sebbene curato esteticamente ma I Saw the TV Glow è semplicemente - seppur non il più bel film che ho visto quest’anno - quello che più mi ha lasciato emozionalmente e sulla pelle: un film melanconicamente abbagliante e luminoso, disincantato (“Questo non è il Regno di Mezzanotte, Maddy: è la periferia") la cui più grande critica che posso fargli è solo di essere eccessivamente disperato.
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NEOLIBERISMO E GIUSTIZIA SOCIALE
La notizia, di qualche giorno fa, che l’agenzia di rating Moody’s ha migliorato l’outlook dell’Italia da negativo a stabile ha fatto la felicità non solo del ministro Giorgetti (“Accolgo con molta soddisfazione la pronuncia di questa sera”) e del suo governo ma anche della meglio stampa padronale. Da quando, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, le teorie neoliberiste (declinate nelle più diverse salse) son tornate in auge è infatti consuetudine pendere dalla bocca delle agenzie di rating e delle organizzazioni internazionali di Bretton Woods (Fondo Monetario Internazionale 𝘦𝘵 𝘴𝘪𝘮𝘪𝘭𝘪𝘢). Il neoliberismo di scuola tedesca, la cui dottrina ha guidato le politiche economiche del 𝘞𝘪𝘳𝘵𝘴𝘤𝘩𝘢𝘧𝘵𝘴𝘸𝘶𝘯𝘥𝘦𝘳 ("miracolo economico") della Repubblica Federale Tedesca del Secondo dopoguerra ha fatto poi a tal punto scuola da permeare, per osmosi, l’impalcatura della stessa Costituzione europea il cui articolo 3 nel Trattato di Lisbona (2007) delinea come obiettivo dell’UE “un’economia sociale di mercato altamente competitiva”. Di stampo neoliberista sono anche le sue istituzioni, come la Banca centrale il cui compito è stato circoscritto al solo controllo dell’inflazione (e non, come avviene per la Fed americana, anche della disoccupazione); e tale peso ha la sua dottrina che il nostro Paese ha infine incardinato nella Carta il principio del pareggio di bilancio e della sostenibilità del debito delle pubbliche amministrazioni (2012) da essa mutuato. Altri compiti che si proponeva la sua scuola sono stati però - più pericolosamente - distorti, come la 𝘝𝘪𝘵𝘢𝘭𝘱𝘰𝘭𝘪𝘵𝘪𝘬: ovvero la politica di trasformazione sociale che vuole i “lavoratori recalcitranti” farsi “imprenditori responsabili” tuttavia oggi declinata in una malsana lettura di società esclusivamente produttiva dove non c’è posto che per la competizione e che addita così la povertà come personale responsabilità. Altri disattesi: perché, se il neoliberismo ridisegna un nuovo ordine sociale e politico che richiede alla guida dello Stato tecnici competenti (i vari Monti, Draghi dicono qualcosa?) - i soli pronti a guardare al bene generale e capaci di non piegarsi ad interessi particolari - dell’élites attuali (i vari Monti, Draghi dicono qualcosa?) si può affermare lo stesso dopo l’ennesima procedura di infrazione avviata dall’UE sulla questione delle concessioni demaniali e non solo?
Spesso ridotto a mero indirizzo di pensiero economico attento al mercato e - viceversa - distratto dei suoi attori il neoliberismo della Scuola di Friburgo (ma non solo tedesco) è stato, in realtà, anche altro. Infatti c'è molto di solidale nell’”economia sociale di mercato” (così definito il neoliberismo da Ludwig Erhard, sino al 1963 Ministro delle Finanze della Germania Occidentale). Tanto per restare all’attualità, uno dei suoi principali teorici, lo svizzero premio Nobel per l’economia (1974) Friedrich von Hayek riconosceva al neoliberismo il diritto a garantire un reddito di base; così scriveva in 𝘓𝘦𝘨𝘨𝘦, 𝘭𝘦𝘨𝘪𝘴𝘭𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘦 𝘭𝘪𝘣𝘦𝘳𝘵𝘢̀: “Assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello sotto cui nessuno scenda quando non può più provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società” pensiero - questo - condiviso da un altro illustre liberale, e futuro Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi che già negli anni Quaranta recensendo 𝘓𝘢 𝘤𝘳𝘪𝘴𝘪 𝘴𝘰𝘤𝘪𝘢𝘭𝘦 𝘥𝘦𝘭 𝘯𝘰𝘴𝘵𝘳𝘰 𝘵𝘦𝘮𝘱𝘰 del sociologo ed economista ordoliberale Wilhelm Röpke fissava tra i compiti a cui doveva assolvere lo Stato liberale la garanzia di un livello minimo di vita a tutti i cittadini. Ancora, pur con motivazioni diverse, i neoliberisti caldeggiavano politiche redistributive da realizzarsi attraverso la tassazione progressiva (altro che flat tax) e il salario minimo (Walter Eucken): insomma, che ci fosse dietro un senso etico di responsabilità dove efficienza ed equità finiscono per sovrapporsi (Eucken, Röpke) o un criterio di sussidiarietà di impianto cristiano (Alfred Müller-Armack) il magistero neoliberista, nato negli anni Trenta, e che credeva che libero mercato e concorrenza poteva e doveva coesistere con la giustizia sociale, è una lezione lontana che dovremmo riscoprire.
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NO ONE WILL SAVE YOU (2023)
di Brian Duffield
Conobbi - diciamo così - Kaitlyn Dever durante la pandemia quando scovai su Netflix la stupenda e misconosciuta serie 𝘜𝘯𝘣𝘦𝘭𝘪𝘦𝘷𝘢𝘣𝘭𝘦 (perché Netflix è così, come le ceste dell’usato che vedi al mercato di Porta Portese: le cose migliori le trovi solo rovistandone il fondo dove nessuno mai vi cerca). 𝘜𝘯𝘣𝘦𝘭𝘪𝘦𝘷𝘢𝘣𝘭𝘦 è la storia vera di una denuncia di stupro e sua ritrattazione (causa superficialità della polizia) portata all’attenzione del grande pubblico grazie al lavoro del giornalista Christian Miller che l’ha resa di ampio dominio (e col quale ha vinto il Pulitzer nel 2016). La Dever è l’incredibile protagonista di 𝘜𝘯𝘣𝘦𝘭𝘪𝘦𝘷𝘢𝘣𝘭𝘦 (in realtà c’è una teoria di bravissime attrici in 𝘜𝘯𝘣𝘦𝘭𝘪𝘦𝘷𝘢𝘣𝘭𝘦 : da Toni Colette a Merritt Wever, da Dale Dickey a Danielle Macdonald). Perché questa premessa? Forse perché memore dell’argomento della serie tv del 2019 e dell’interpretazione della Dever da allora considero questa giovane donna una delle attrici più dotate nell’esprimere dolcezza e forza al contempo e per il cui ruolo in 𝘕𝘰 𝘖𝘯𝘦 𝘞𝘪𝘭𝘭 𝘚𝘢𝘷𝘦 𝘠𝘰𝘶 - quello di una ragazza che vive sola soletta in una piccola abitazione, isolata dalla comunità circostante, e che occupa le giornate a confezionare abiti sino a quando la casa non viene invasa dagli alieni - ritengo perfetto. L’altro giorno mi ricordavo della Thomasin McKenzie in apertura di Ultima Notte a Soho (2021) quando ci lascia credere, circondata dagli oggetti e dall’atmosfera che ha ricreato, di vivere ancora negli anni Sessanta; la stessa scelta che fa la Dever in 𝘕𝘰 𝘖𝘯𝘦 𝘞𝘪𝘭𝘭 𝘚𝘢𝘷𝘦 𝘠𝘰𝘶: solo che se il mondo che si è costruito Ellie è una fantasia che rincorre per raggiungere un periodo storico che non ha vissuto e idealizza per Brynn questa fuga nel passato si è fatta grigio rifugio (a dispetto della fotografia patinata mostrata nelle prime inquadrature), gabbia in ferro battuto e senza (apparente) via d’uscita per così rinchiudersi e scontare la condanna per il senso di colpa di un grave errore - errore del quale non riesce a perdonarsi - commesso in quell’isola dai contorni incerti - ma in realtà vulcano pronto ad esplodere - che gli psicologi dell’età evolutiva chiamano adolescenza. Di questo mancato perdono, aggiungo, è la stessa ipocrita comunità del posto a farsi complice perché l’ha allontanata ed emarginata (a proposito, chi sono le vere minacce? Le forme di vita extraterrestri - distanti e aliene - o i nostri vicini, prossimi ma indifferenti se non ostili?). Guardando 𝘕𝘰 𝘖𝘯𝘦 𝘞𝘪𝘭𝘭 𝘚𝘢𝘷𝘦 𝘠𝘰𝘶 ho fatto un paio di salti sulla sedia (diversi jump scare ben riusciti) ma soprattutto mi sono commosso (ok, oramai mi capita spesso): perché Kaitlyn Dever regge tutto il film da sola, senza pronunciare una sola parola se non nel finale quella frase liberatoria; silente infatti lascia parlare il suo sguardo, la mimica del viso fatto di malinconica solitudine e dolore ma anche ostinata determinazione e coraggio. Più di venti anni fa, quando le piattaforme tv giravano sul satellite e non su internet, vidi su Stream un film con Billy Bob Thorton (Levity di Ed Solomon) affrontare gli stessi temi di 𝘕𝘰 𝘖𝘯𝘦 𝘞𝘪𝘭𝘭 𝘚𝘢𝘷𝘦 𝘠𝘰𝘶: il peso della colpa e la mancanza di quella leggerezza (per dirla con il Calvino delle Lezioni americane) necessaria per concedersi il perdono. Era un film bellissimo ma, ancora una volta, il cinema di genere ci dimostra, con i suoi stilemi e topoi, che sa toccarci nel profondo come nessun altro riesce a fare.
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HUNTER HUNTER (2020)
di Shawn Linden
Vidi 𝘏𝘶𝘯𝘵𝘦𝘳 𝘏𝘶𝘯𝘵𝘦𝘳 (2020) diverso tempo fa e molte delle recensioni che lessi si mostrarono (negativamente) critiche, non tanto sul film, quanto sulla figura del protagonista maschile, Joseph Mersault (Devon Sawa): un capofamiglia cacciatore di pellicce che sceglie l’isolamento in una remota baita montana. Vorrei provare a distanziarmi dalle dinamiche famigliari che si intrecciano nel film, mettere da parte i topoi di genere (horror e thriller) lì presenti e provare ad offrire, viceversa, una lettura sociologica (e rivedere così anche il personaggio di Joseph) del lungometraggio di Shawn Linden. E se Joseph, anziché - come dai più descritto - arrogante e ostinato (per questa sua scelta anacronistica di vivere - e far vivere la sua famiglia - lontano dalla comunità) fosse invece ferino? Ma, ferino etimologicamente senza nessuna altra connotazione: perché come qualsiasi fiera lui caccia per sostentamento non per diporto, per sopravvivenza non per gioco; insomma più vicino al 𝘋𝘦𝘦𝘳 𝘏𝘶𝘯𝘵𝘦𝘳 (1978) Mike Vronsky/Robert De Niro di Michael Cimino con un solo colpo in canna (“Un colpo solo se no non è leale”) che alla 𝘨𝘦𝘯𝘵𝘳𝘺 inglese e che ozia in cacce alla volpe, segugi inclusi. È soprattutto in questo ritorno (o tentativo di ricerca) a una società premoderna che Hunter Hunter si fa film survivalista e dove Joseph si trova a rappresentare quasi il mito del Buon Selvaggio di rousseauiana memoria, lui, in contrapposizione all’ingresso della civiltà nella storia (in 𝘞𝘢𝘭𝘬𝘢𝘣𝘰𝘶𝘵 Nicolas Roeg contrappone natura/cultura scegliendo un montaggio parallelo tra il macello del canguro del giovane aborigeno e una scena con la preparazione della carne bovina fatta da un macellaio: inutile dire per chi parteggerebbe Joseph). Sotto questa luce il giudizio su Joseph dovrebbe farsi più neutro e meno critico senza contare che la scelta di vita di Joseph non si è fatta prevaricatrice, certamente non è stata imposta alla moglie Anne (e lei stessa a dirlo: “Io l'ho scelta quando ho scelto te”); dopotutto ciò che Anne (Camille Sullivan) rimprovera al marito è un indirizzo di vita dentro la quale sente costretta la figlia Renee (Summer H. Howell) che, tuttavia, per tutto il film pare accogliere con entusiasmo (in fin dei conti lungo qualsiasi latitudine un genitore - più o meno inconsciamente - costringe i figli dentro una apparente scelta culturale che appare libera). Naturalmente si potrebbe obiettare che anche Joseph non è poi più libero di Renee dal momento che la scelta di campo compiuta è solo in contrapposizione a un’altra e, la sola a scegliere liberamente (ma costretta dall’amore per Joseph?), è Anne. Poi però arriva quel finale icastico e senza appello nel quale Anne, non per vendetta ma per disperazione, mette in pratica ciò che ha imparato dalle tecniche di scuoiamento di Joseph rimarcando così ancora una volta, sì la distanza dal marito - perché il suo gesto è, più che ferino belluino (pieno di umana bestialità e lontano dall’istinto di un predatore dei boschi) - tuttavia, in quel suo gesto - senza possibilità - si trova anche una comunione più profonda con Joseph e Renee: anche lei, insomma, si mostra senza una vera possibilità di scelta. 𝘏𝘶𝘯𝘵𝘦𝘳 𝘏𝘶𝘯𝘵𝘦𝘳 è un film fortemente pessimista e dove tutti escono sconfitti; ne esce sconfitta su tutte la società che l’uomo civilizzato ha costruito ma anche il suo tentativo di rifuggirla che, come dimostra Joseph, non è più possibile.
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B. PRATICA DI MARE E QUEL SOGNO NAUFRAGATO
Qualche giorno fa ad 𝘖𝘵𝘵𝘰 𝘦 𝘮𝘦𝘻𝘻𝘰 Michele Santoro ha voluto condividere col pubblico una confidenza che si era tenuto per sé ovvero di una telefonata ricevuta da B. prima dell'ultimo e fatale ricovero e nella quale l'ex Presidente del Consiglio si esprime sulla guerra, sui suoi orrori e sui danni che quella in Ucraina sta arrecando all'Europa; ancora sul convincimento "dell'inadeguatezza complessiva dei politici italiani, di destra e anche di opposizione, ad affrontare un momento così difficile". Considerazioni di grande "lucidità" quelle di Berlusconi (come l'ha inquadrate Santoro) che mi hanno ancor più colpito forse perché per la prima volta - non era da lui - proferivano verità. Perché sì, questa classe politica (ma non solo italiana) è totalmente inadeguata, pavida e sconsiderata, nel modo in cui ha scelto di affrontare uno degli avvenimenti più difficili e drammatici del Secondo dopoguerra. Ora, è vero che Berlusconi ha consegnato poco o niente se non un mucchio di macerie al Paese (ce lo ha confermato anche Stefania Craxi, sempre a 𝘖𝘵𝘵𝘰 𝘦 𝘮𝘦𝘻𝘻𝘰 - ma la sera successiva - quando, all’invito di Lilli Gruber di elencare anche una sola importante riforma fatta da B. la senatrice di Fi ha risposto: "Bisogna rispettare il voto degli italiani"; mi aspettavo che continuasse con "non esistono più le mezze stagioni" ma tant'è); dunque, se sono incontestabili i reati (frode fiscale) e i disastri (crisi del debito 2011) consegnati da B. all'Italia tanto quanto è pacifica l’alta considerazione che l'ex Cavaliere aveva di sé al punto di non accettare il proprio declino politico (ancor più se a favore di quella che riteneva una sua "creatura": Giorgia Meloni) e, tuttavia, quando lo stesso si beava con orgoglio degli accordi - era il 28 maggio del 2002 - di Pratica di Mare fra Nato e Russia beh… ne aveva il diritto. E la facoltà. Se da una parte la crisi economica e finanziaria che aveva attraversato la Federazione russa a cavallo di fine millennio aveva permesso alla Nato di bombardare Belgrado (e spingere sempre più a est l'Alleanza atlantica) senza che Mosca fiatasse dall'altro quel rovinoso sconvolgimento che il Grande Orso stava attraversando avrebbe potuto aprire alla possibilità di un'apertura e avvicinamento tra Est e Ovest che proprio quegli accordi lasciavano se non presagire, immaginare. In quale direzione si è invece scelto di proseguire e quali conseguenze quelle decisioni scriteriate abbiano oggi portato inutile dire. E se certo non sarebbe stato Berlusconi a cambiare il corso della storia resta il fatto che a sostituirlo non si vedono figure più degne. Intanto sono giornate di lutto nazionale (se per il Marchese del Grillo tutte le campane di Roma dovevano suonare all'unisono perché era morto, non il papa bensì la giustizia per me quest’oggi le bandiere sono a mezz'asta perché è stato seppellito il decoro - stando ad ascoltare certe dichiarazioni di accoliti, famigli e camerieri di corte) mentre per quel che riguarda la decisione di chiudere in via eccezionale e in segno di lutto il Parlamento per sette giorni... scelta pericolosa: noi italiani ci si potrebbe non accorgere della differenza con tutti gli altri.
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MALUM (2023)
di Anthony DiBlasi
Casualmente avevo rivisto Last Shift (2014) poche settimane fa senza sapere che Malum ne fosse il remake. Che cosa spinga un regista – lo stesso, tra l’altro, Anthony DiBlasi – a girare dopo appena dieci anni di distanza il medesimo film resta un mistero. Certo non l’idea di cavalcare il successo e fatturare come accaduto con, ad esempio, Blood Story (2010) i cui autori realizzarono – in fin dei conti – un bel lavoro, a suo modo anche originale rispetto all’incunabolo Lasciami Entrare (2008). Dopotutto Last Shitf fa parte di quella lunga teoria di bei film di genere ma rivolti a una cerchia così ristretta di appassionati da riempire più il cuore del pubblico che il conto in banca dei produttori. Col rischio però che poi gli appassionati restino delusi. E offesi. Potrò non prenderci ma dato che mi piace peccare devo parlare male di questo Malum e credo che la sola esigenza di questa inutile riproposizione del gioiellino del 2014 è banalmente una mancanza di nuove idee che si riversa così nella scelta di rifugiarsi dentro la stessa storia ma declinata - ahimè - secondo le trite esigenze del 𝘱𝘰𝘭𝘪𝘵𝘪𝘤𝘢𝘭𝘭𝘺 𝘤𝘰𝘳𝘳𝘦𝘤𝘵 (la protagonista - Jessica Sula - resta sempre un'agente ma afroamericana; il padre della giovane Jessica da poliziotto-eroe del distretto - sull'onda del Black Lives Matter - si fa carnefice reietto; la prostituta che bazzica la zona perde l’aura di donna indipendente del primo episodio per scadere nel ruolo vittima indifesa, come se la prostituzione non possa essere scelta di libertà ma solo sfruttamento). Se The Last Shift sceglieva di non mostrare molto e, sapientemente, riusciva a costruire inquietudine e un senso di angosciante claustrofobia (davvero il suo pregio) arrivando alla 𝘥𝘦𝘵𝘦𝘤𝘵𝘪𝘰𝘯 attraverso una serie di situazioni e trovate tanto semplici quanto riuscite (come la scena dell’arrivo del collega di Jessica in centrale per sincerarsi della recluta, scena debitrice dello Shyamalan de Il Sesto Senso) qui in Malum invece troviamo, sì tanto gore, ma anche un maiale (sic!) che si aggira solitario in stazione come la povera protagonista, continui flashback finalizzati a spiegare una trama (ma “less is more”) la quale scade in un’edizione in-sedicesimo della Manson Family Story (con l’aggravante del ridicolo della sotto trama che svela la schiatta di Jessica). Gli ultimi quindici minuti poi sono una fastidiosa carnevalata. Il male è qualcosa di più serio di una festa in maschera.
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IL VERGOGNOSO EPILOGO DEGLI INTERNAZIONALI D'ITALIA 2023
“E adesso ci dispiace per come è andata a finire ma vorrei che faceste tutti quanti un grandissimo applauso a Elena Rybakina.” Sì, avete letto bene, durante la premiazione della finale femminile degli Internazionali d’Italia di tennis così lo speaker ha voluto introdurre la vincitrice Elena Rybakina, giocatrice naturalizzata kazaka ma di origine russa (è nata a Mosca). Quindi niente complimenti di rito per la vincitrice ma disappunto per una finale che peggio non poteva andare (inizio con quattro ore di ritardo causa maltempo): già, perché ad uscire sconfitta è stata l’ucraina Anhelina Kalinina. Una gaffe? Macché, invitando sul campo la finalista per la premiazione così ancora lo speaker: “Facciamo un grande applauso ad Anhelina perché avremmo voluto festeggiare in modo differente.” Questa la indecente conclusione della finale femminile, tra ritardi causa maltempo (sono quindici anni che il Centrale del Foro Italico aspetta la copertura per garantire il gioco anche in caso di pioggia), scambi di persona (sì, lo stesso speaker ha confuso la Rybakina con la Kalinina), inversione del protocollo (si è premiata prima la vincitrice e poi la runner up); premi non consegnati (si sono dimenticati del trofeo alla Rybakina che praticamente ha dovuto ritirarlo da sola). La Rybakina è una 23enne russa di passaporto kazako perché ha dovuto fare quel che fanno tante ragazze e ragazzi al mondo: dire addio alla propria terra per mancanza di opportunità (dopo la crisi finanziaria russa a cavallo del nuovo millennio il tennis dell’era Putin aveva tagliato i fondi e così si era fatto avanti il Kazakistan di Nursultan Nazarbaev rispolverando la lezione dei vecchi compagni sovietici: sport come strumento di propaganda). La Kalinina invece, lo scorso anno, durante un incontro al torneo estivo di Berlino - impegnata contro la russa Darya Kasatkina - si era accasciata a terra per un infortunio al polpaccio e la collega Dasha non aveva esitato a “invadere” l’altra metà del campo per soccorrerla con una borsa del ghiaccio. Questa è la vita, questa ancora la lezione e il messaggio che lo sport può consegnare. Naturalmente il giorno seguente dopo la femminile si è giocata, come di consueto, anche la finale maschile che ha visto, insieme a un po’ di sole, la vittoria del russo Daniil Medvedev: stavolta gli organizzatori sono stati irreprensibili e anche più, non solo hanno consegnato il trofeo a Daniil ma accompagnandolo con le note del pezzo reso celebre negli anni Novanta dai Pet Shop Boys, Go west! 𝘔𝘢𝘭𝘢 𝘵𝘦𝘮𝘱𝘰𝘳𝘢 𝘤𝘶𝘳𝘳𝘶𝘯𝘵…
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THE VVITCH (2015)
di Robert Eggers
The Witch (2015, col sottotitolo A New-England Folktale) è un "film ispirato da un gran numero di leggende popolari su stregonerie del passato", così lo sceneggiatore e regista Robert Eggers. Agli inizi del XVII sec. la famiglia di un predicatore viene allontanata dalla propria comunità e costretta a vivere ai margini del bosco. Nella ricostruzione del periodo storico - dai costumi (L. Muir) alla lingua (l’Early Modern English), dalla fotografia della società all'immaginario collettivo - il regista newyorkese lambisce una cura che sa di fedeltà filologica. Thomasin, la giovane protagonista del film, rappresenta superbamente quel particolare periodo storico - liminale - nel quale fede e ragione ancora si sovrapponevano e dove la superstizione rappresentava il bagaglio culturale popolare, reale quanto la difficile vita dei campi. È impossibile guardare The Witch e non correre col pensiero alla sterminata letteratura sulla stregoneria, alle fiabe e leggende popolari, ai documenti d’archivio o fonti storiche. Ancora, a Carlo Ginzburg e al suo lavoro sui benandanti: i guerrieri spirituali che combattevano le forze del male per proteggere i raccolti ("le biade"). E, in questa accurata ricostruzione d’epoca, il tema della terra e del raccolto, l’ossessione per il cibo e la paura della fame così costante in quel mondo rurale si fa strada sin dal primo minuto (con il bosco dove si rifugiano gli animali e si nascondono le trappole) per attraversare l’intero lungometraggio (da notare quanto un film come 𝘓𝘢 𝘲𝘶𝘪𝘯𝘵𝘢 𝘴𝘵𝘢𝘨𝘪𝘰𝘯𝘦 - 2012 - accumunato da The Witch per il filo rosso delle credenze e riti come costante della quotidianità nell’immaginario popolare condivida con esso anche l'estetica; inquadrature, composizione, luce: è tutto un felice omaggio alla pittura fiamminga del periodo, da Bruegel in poi). Il tema della stregoneria si presta poi a molteplici punti interpretativi: dal conflitto tra 𝘯𝘰𝘮𝘰𝘴 e 𝘱𝘩𝘺𝘴𝘪𝘴, a quello del soprannaturale sin fino a interrogare immaginario e inconscio collettivo. Il patriarcato, ancora, e il ruolo della donna. Di questo conflitto Thomasin, una superba Anya Taylor-Joy, ne è la degna rappresentazione plastica: a partire da quel suo corpo che la colloca ancora in una terra di mezzo (come il periodo storico in cui la vicenda si colloca) tra l'adolescenza e l'età adulta (nel corso del film assisteremo al suo menarca come accadde alla Moretz in Carrie). Così Thomasin vive un conflitto tra la repressione famigliare (rappresentata più ancora che dalla figura del padre dal modello femminile espresso della madre Katherine) e desiderio di autodeterminazione: non potrà sciogliersi che non con Thomasin che uccide la Regina del focolare, Katherine, per farsi - lei - Regina del bosco. La scelta di abbandonare la religione, il credo del padre (e dei Padri) per abbracciare la stregoneria e raggiungere una piena consapevolezza di sé chiude il film, in una delle sue immagini più potenti. Si aggiunga quanto in Eggers le metafore trovino forza nella concretezza del quotidiano: il caprone Black Philip, il diavolo, istiga Thomasin attraverso la promessa del burro (ancora il cibo): quel burro (𝘣𝘶𝘵𝘵𝘦𝘳) che secondo le antiche credenze le streghe rubavano dalle dispense una volta trasformatesi in farfalle (𝘣𝘶𝘵𝘵𝘦𝘳𝘧𝘭𝘺). "Tremate, tremate le streghe son tornate." Ma la grandezza del film di Eggers sta, ancor più, in questo forte messaggio femminista senza mai scadere nel didascalico o nel retorico. Se nel corso dei secoli la strega è sempre stata oggetto di persecuzione da parte delle autorità, a partire dagli anni Settanta il movimento femminista se ne impossessa, rivendicandone l'appartenenza. Se “la prolungata schiavitù della donna è la pagina nera della storia dell'umanità” scriveva un secolo e mezzo fa Elizabeth Cady Stanton più recentemente J. Doyle è andata oltre affermando che la storia dell'umanità è storia stessa del patriarcato e la donna è sempre stata il suo antagonista, così: "se il villaggio non ci vuole possiamo sempre dirigerci verso i boschi", quei boschi che sceglie Thomasin senza più quelle trappole che piazza la società: si chiamino imposizioni od obblighi (anche in 𝘞𝘪𝘵𝘤𝘩 𝘏𝘶𝘯𝘵 - 2020 - l’𝘦𝘮𝘱𝘰𝘸𝘦𝘳𝘮𝘦𝘯𝘵 femminile viene rappresentato attraverso la scelta, visivamente poetica, di rifuggire la luce/legge e abbracciare l'ombra/libertà attraverso un volo). Come detto, la grandezza di The Wicht non è tanto per il tema che affronta quanto per il modo in cui lo fa. Anche 𝘎𝘦𝘵 𝘖𝘶𝘵 di Peele (2017) è un film politico ma dinanzi all'eccellenza figurativa di Eggers Get Out appare poco più che il lavoro incerto e pasticciato di uno studente al primo anno del Cine-TV, neppure la declinazione in chiave satirica del bigottismo di una certa intellighenzia lo salva da un fastidioso paternalismo e retorica tronfia che il gioiello di Eggers o, ancora, la donna promettente Carey Mulligan - con quell'estetica smaccatamente pop - sono stati così abili da rifuggire regalandoci fotogrammi stupendi di cinema.
https://youtu.be/_FGAp9hCvY0
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INFINITY POOL (2023)
di Brandon Cronenberg
Dopo l’isola privata di Mark Mylod nella quale ricchi annoiati erano pronti a spendere migliaia di dollari per spiluccare un’esperienza esclusiva e dopo quella (solo in apparenza) selvaggia nella quale si spiaggiavano i sopravvissuti di Ruben Östlund, Brandon Cronenberg disegna e immagina la sua. Isola immaginata ma non immaginaria. Che siano ristoranti haute cuisine, crociere di lusso o resort a cinque stelle cambia sì il contenitore ma non il contenuto: ovvero una borghesia (nella doppia accezione marxista e baudelairiana) patinata la cui etica si rispecchia con “il peggiore sistema sociale ad eccezione di tutti gli altri.” Se Anya Taylor-Joy la sfangava bella dal suicidio/omicidio di massa del folle chef Ralph Fiennes grazie ad una banale richiesta, un ordine lontano dalla pretenziosità degli altri commensali, finendo poi per addentare un gustoso cheeseburger e, se nel Triangolo della Tristezza i ruoli sociali venivano ribaltati (anche se solo momentaneamente) da un accidente, più che imprevisto sottostimato (come ogni rivoluzione, del resto) Cronenberg figlio sembra invece affermare che non c'è nessuna via d'uscita, possibilità di salvezza perché per lui il racconto non si ferma alle sovrastrutture bensì indaga qualcosa di più profondo. Più vicino a The Menu (2022) che Triangle of Sadness (2022) sia per la ricerca formale che per una certa dose di cerebralismo se ne distanzia perché il tema della spersonalizzazione, solitudine e perdita dell’identità (l’altra colonna portante della critica all'edificio del capitalismo assieme alle disuguaglianze/sfruttamento) così cari all'autore sono totalizzanti ma finiscono - purtroppo però - col fagocitare l'intero film. E questo alla lunga stanca.
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TERRIFIER 2 (2022)
di Damien Leone
Art il clown è tornato e che ci si possa attendere di tutto lo capiamo già dalle prime sequenze dove una lavanderia a gettoni restituisce al clown killer un vestito lindo e pulito senza una sola macchia come neanche lo spot più paraculo. Ma Damien Leone è così, più immorale della nostra immorale società dei consumi. O forse amorale - Leone - al di là del bene e del male. Delle due rappresentazioni e nature del clown (bianco e rosso) Art (un David Howard Thornton al suo meglio) è decisamente più vicino all'Augusto, il clown rosso: anarchico, trasgressivo; a momenti goffo. La sua cifra è un black humor icastico e, sebbene non fiati (dopotutto nel XIX secolo il clown era ancora una figura muta), le sue azioni (leggasi torture) e il compiacersi della sofferenza della povera vittima, parlano da sé. Di queste sua predilezione al granguignolesco nell'infliggere dolore al malcapitato e che, dallo schermo arriva ai nostri occhi di fruitori, c'è da riflettere: almeno nella misura in cui, oltre al raccapriccio, piantandosi nei nostri volti - quasi specchio del suo - la sofferenza della vittima si mostra in guisa di nostro sghignazzo soddisfatto. Ancora, offrire la notte di Halloween su di un vassoio di cervella caramelle ad inconsapevoli ragazzini o prendersi gioco della t-shirt di Jeff (“just the tip”) per trasformare il gioco della finzione (o della citazione) da rappresentazione ad accadimento sino a sovrapporre mimesi e realtà una riflessione sul dualismo arte e vita. Decisamente meglio la prima della seconda parte, che si tira un poco per le lunghe e perde mordente (e forse il primo Terrifier, più grezzo, acerbo e non in cerca di spiegazioni trovava una sua strada più coerente nel rappresentare la poetica senza freni e continenza di Leone). Sienna (Lauren LaVera)/Diana e la sua Ammazzadei o Ammazzademoni ci porta ancora a immaginare che possiamo sconfiggere quel male del quale non troviamo origine né spiegazione. Almeno sino al prossimo capitolo.
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"Croyez ceux qui cherchent la vérité, doutez de ceux qui la trouvent"
"Credi in coloro che cercano la verità, dubita di coloro che la trovano"
André Gide